venerdì 23 luglio 2010

Due articoli tratti da Rinascita.


Articolo di Alfredo Musto del 22 luglio 2010



L’onda lunga del 1992, l’onda lunga della morsa che stringe l’Italia, l’onda lunga della destabilizzazione e della penetrazione dei poteri che stanno sfibrando il tessuto politico, economico e sociale del Paese, mostra la sua forza d’urto riversandosi in ogni campo.
Naturalmente, infiltrandosi nei meccanismi dell’informazione e della propaganda, anzi dominandoli.
L’establishment della stampa e dell’editoria ricalca l’impronta di azione e controllo dei soggetti strategici che da decenni reggono le fila di un continuum oramai chiaramente ideologico e caricaturale.
Ne costituiscono una formidabile incarnazione Eugenio Scalfari e la sua emanazione Repubblica, espressioni di quel coacervo laico-azionista-massonico che ha caratterizzato fortemente i passaggi storici di questo Paese e a cui si ricollegano personaggi e vicende di primo piano, negli avamposti della politica, della finanza, della cultura così come dietro le quinte dei circoli e degli ambienti di comando e pressione.
I custodi delle verità precostituite e delle letture storiche preconfezionate amano spesso e volentieri menar vanto di lungimiranti intuizioni e di eccelse frequentazioni ideali o effettive. Costruiscono e aderiscono ad un immaginario di personaggi e ad uno scenario di eventi che poi calano sulla cosiddetta opinione pubblica, appositamente indotta o educata a credervi.
Scalfari, noto trombone di siffatto modus agendi, si è così prodigato per sé e per la Nazione nell’encomio di un uomo-simbolo che in tutti questi anni si è voluto piazzare sul piedistallo di moderno Padre della Patria, con tanto di “medaglia” al valore e al merito.
Scalfari loda Ciampi, dunque. L’occasione, l’ennesima, è l’uscita del libro-conversazione dell’ex presidente con Arrigo Levi. Dagli spunti che fornisce il fondatore de la Repubblica pare trattarsi di qualcosa decisamente differente dal pregnante “Fotti il potere” di un altro ex presidente quale Cossiga.
In questo suo “Ciampi, le tre vite del presidente. Autoritratto di un servitore dello Stato” [in data 17 giugno], Scalfari va in digressione sulla vita di quello che definisce “un personaggio unico nella storia dell’Italia repubblicana”.
(http://www.repubblica.it/politica/2010/06/17/news/ciampi_le_tre_vite_del_presidente_autoritratto_di_un_servitore_dello_stato-4910575/index.html?ref=search).
Ecco, distanti dalla ferma tenuta liberal-democratica dell’egregio Direttore, molto più volgarmente il Gran Maestro livornese nei nostri ricordi è un dissolutore dello Stato.
La sua ascesa alle postazioni di comando è stata figlia dei tempi.
Ciampi rappresenta quella fase di passaggio dalla primazia della politica alla prassi tecnocratica ed economicistica. Costituisce, di fatto, uno di quei personaggi dotati di un apparentemente neutrale sapere tecnico che si è voluto presentare come imprescindibile per muoversi all’interno delle nuove dinamiche globali. Così è accaduto che un Governatore della Banca d’Italia e punto di riferimento di una certa corrente finanziaria con determinati assetti e mire strategiche, sia stato indicato tra i prescelti a condurre il Paese in una fase di instabilità politico-economica.
Tuttavia, se è pur vero che egli viene fuori da e in una situazione d’urgenza, resta il fatto che questa è stata determinata da un insieme di cause scatenati che non piovono dal cielo, ma sono la risultante di quello che può essere definito – a maggior ragione oggi a distanza di anni- un processo di ridisegnamento geopolitico e geoeconomico, all’interno del quale si inserisce a pieno titolo quell’ ”oscuro” fenomeno null’affatto solo giudiziario che fu Mani Pulite.
Di Ciampi, a differenza delle complici reticenze di Eugenio Scalfari, preferiamo ricordare le sue per nulla sagge iniziative in particolare da Governatore nel ’92 e poi da Presidente del Consiglio nel ’93, a parte quelle da Ministro indiscusso del Tesoro dal ’96 al ’99.
La sua esaltazione storiografico-giornalistica è speculare alla mitizzazione fatta di Maastricht, dei suoi parametri eretti a dogmi di fede inattaccabile, e della moneta unica europea.
Negli anni Novanta l’europeismo è tutta un’alchimia tecno-finanziaria. Ciampi è come un profeta.
Alla guida di Bankitalia, in combutta con il fanta-socialista Amato e con le centrali della finanza e dei predoni nazionali ed internazionali, operò la scelta della svalutazione della lira.
Nei primi mesi del 1992, le parità di cambio all’interno dello SME erano pressoché consolidate, senza che ci fossero particolari oscillazioni oltre i limiti prefissati. Da parte sua, l’Italia presentava una bilancia commerciale nella sostanza equilibrata e un monte di riserve valutarie intorno ai 34 miliardi di ecu, più o meno 52mila miliardi di lire.
Nello scombussolamento generale in atto e nel convergere di diversi fattori endogeni ed esogeni, calò una significativa manovra finanziaria a far scricchiolare gli assestamenti degli anni precedenti.
Nel mirino c’era, tra le altre monete, la lira. In cabina di regia operavano Soros&soci. I loro bracci armati come l’agenzia di rating Moody’s lanciavano campagne a discredito del Paese.
Al trio Ciampi-Amato-Barucci non poteva sfuggire che un attacco di quel tipo non poteva essere contrastato operando sul mercato dei cambi con una solitaria iniziativa nazionale, anche in virtù delle condizioni di libera convertibilità. Sarebbe stato necessario almeno un sostegno tedesco, il che era evidente non fosse possibile. La Bundesbank non aveva intenzione di tener fede ormai agli accordi Sme, la stessa Germania avrebbe tratto vantaggio dalla svalutazione della lira.
Così, con larvato autolesionismo o meglio con subdola complicità, si provvedeva ad attuarla con un iniziale 7% poi in crescendo. La lira scivolava via dallo Sme.
A fronte di un’estemporanea boccata d’ossigeno sarebbero emersi almeno tre fattori, tutti indicativi di una manovra di destabilizzazione: i profitti dell’orda di speculatori, il dissanguamento delle riserve finanziarie e il deprezzamento della vasta gamma di aziende pubbliche per le quali si preparava il de profundis.
La consolidata struttura di economia mista italiana entrava praticamente nel ciclone liberista.
Il 2 giugno, sul Britannia, si raggiungeva un’altra tappa del regime change all’italiana.
E non casualmente, ma in perfetta sinergia, all’attacco economico-finanziario si affiancava in quel periodo quello politico, all’uopo per via giudiziaria, con l’operazione Mani Pulite (nome in codice cleanhands).
Sorvoliamo sulle altrettanto non casuali sanguinarie sortite della Mafia, a proposito delle quali lo stesso tecno-Carlo Azeglio di recente ed il clan di Repubblica da sempre, continuano a fare opera di depistaggio.
Evidentemente il nostro Ciampi, in scioltezza spalleggiato da Washington, Londra e Bruxelles, assurgeva a fidato alfiere del processo di sgretolamento predisposto per l’Italia.
In uno scenario politico sempre più cumulo di macerie, nasceva il primo governo tecnico della storia della Repubblica, con a capo il Gran Maestro (aprile ’93- maggio ’94).
Sintomo palese di una frattura storica. Prima di lui, fu Badoglio. In seguito ad un colpo di Stato. Allora il ’43, ieri il ’92. E ho detto tutto. Il governo Ciampi non badò, come naturale che fosse, alla tenuta del sistema. Nacque per gestire un itinerario all’interno di una transizione eterodiretta. In quei giorni si consumò la liquidazione dei vecchi partiti baluardo di un dato assetto, di una data politica; si redisse una riforma elettorale di tipo maggioritario e si avviò tutto quell’infausto processo di dismissioni-privatizzazioni che segnerà il ciclo degli anni Novanta, di chiara matrice centro-sinistra. Ci preparavamo a “fare all’americana”. Le sue parole al convegno I Nobel a Milano, riecheggiano la solita solfa del linguaggio moderno-liberista: “… i mali d’Italia si identificano in tre rigidità: quella del sistema economico finanziario, basato su grandi imprese in gran parte di proprietà pubblica incapaci di sviluppare un vero mercato del capitale di rischio; la rigidità del mercato del lavoro e del sistema fiscale; la rigidità della pubblica amministrazione.
Assieme, queste tre rigidità - afferma Ciampi - hanno disegnato un volto del sistema economico italiano in cui la propensione naturale per il mercato è stata svilita, in cui lo Stato è stato troppo presente dove non avrebbe dovuto essere - favorendo in tal modo l’inquinamento da corruzione - e non abbastanza presente dove avrebbe dovuto: nell’azione in difesa della concorrenza, nello sradicamento dell’economia criminale, nella promozione dei mercati finanziari al servizio di tutti”.[da “I giorni dell’IRI” di M. Pini] E venne l’ora delle intuizioni. Come “la politica di concertazione delle parti sociali” - per sua stessa definizione - che volevasi rivelare il mezzo per far fronte alle nuove dinamiche del mercato del lavoro. I sindacati, già sclerotizzati, stavano al gioco. Come l’abolizione dei limiti vigenti dalla legge bancaria del 1936 in merito alla separatezza tra banche e industria.
Come la nomina di un comitato di consulenza per le privatizzazioni con a capo Mr. Mario Goldman Sachs Draghi, di pari passo col ritorno all’Iri di quell’altro fuoriclasse della distruzione ovvero Romano Prodi.
Del duo sfasciacarrozze Carlo Azeglio – Romano ricordiamo la privatizzazione della Banca Commerciale Italiana, del Credito Italiano, di buona parte del settore agro-alimentare dell’Iri, della Nuova Pignone Eni. Con la logica della “ristrutturazione”, nel ’93 fu messa mano all’Ilva. Praticamente l’inizio della fine della grande siderurgia italiana.
Praticamente con Ciampi si avvia – per continuare poi con lui stesso al Tesoro- in maniera operativa la disintegrazione del controllo pubblico di banche ed industrie, l’annullamento di una visione strategica nazionale attraverso l’abbattimento dei settori chiave, l’appiattimento alle logiche eurocratiche con le relative disfunzioni nel mondo del lavoro ed in quello produttivo.
Un’azione scientemente condotta. Persino eversiva.
Scalfari, nella sua stucchevole sottolineatura dell’alto profilo istituzionale, non manca di far notare l’altro lato dell’atlantismo dell’ex presidente, accennando alla “riunione del Consiglio supremo di Difesa da lui convocato all’inizio della guerra americana in Iraq, che impose al governo la formula della “partecipazione pacifica” del contingente italiano all’iniziativa di Bush, visto che la nostra Costituzione impedisce guerre offensive”. Chiaro, no?
Ci vuole la tenacia, la complicità e la visione azionista di Scalfari per definire Carlo Azeglio Ciampi “un servitore dello Stato”. All’uno e all’altro, del resto, non manca una pedante retorica intrisa di formalismo liberal-democratico, la stessa in uso per giustificare e incensare le manovre di potere e gli sconquassi che segnano Italia dal ’92 ad oggi.
La stessa, del resto, in uso quando si ergono a legittimi paladini del bon ton costituzionale e della retta via da perseguire in ossequio ai dettami tecnocratici che provengono dalle “alte cariche” nazionali o estere.
L’accolita di giornalisti e intellettuali alla Scalfari dipinge sempre gli interventi e le mosse di grigi funzionari e integerrimi liberal-democratici come fossero le sublimi e necessarie posizioni che ad un Paese moderno e riformista spetterebbe assumere. La solita solfa.



Articolo di www.movisol.org del 22 luglio 2010



L’idea per cui le liberalizzazioni e le privatizzazioni portino benefici all’economia, è ormai, dai fatti, totalmente confutata.
1 – le liberalizzazioni portano ad un aumento dei prezzi;
2 – le liberalizzazioni portano alla distruzione di posti di lavoro ed all’abbassamento degli stipendi dei lavoratori e dei fatturati delle piccole imprese;
3 – la liberalizzazione-privatizzazione dell’impresa pubblica nel periodo 1992-2000 non è stata conseguenza dell’inefficienza economica;
4 – i processi di liberalizzazione-privatizzazione non hanno minimamente migliorato la capacità produttiva italiana;
5 – le liberalizzazioni favoriscono i concentramenti di capitale in poche ricchissime mani;
6 – il rendimento finanziario delle aziende privatizzate è stato peggiore rispetto alla generalità del mercato finanziario italiano.
Il processo di liberalizzazioni-privatizzazioni prese avvio in Italia nel 1992. La motivazione ufficiale che portò a questa fase di stravolgimento degli assetti proprietari dell’impresa pubblica nazionale fu quella dell’elevato debito pubblico che andava ridotto. A ciò si aggiungeva e si legava, la questione di una maggiore “libertà” del mercato, con cui la preminente presenza pubblica in settori strategici e non, confliggeva. Questa stagione prese avvio in concomitanza ad alcuni fatti che resero caldissima la situazione politica e sociale italiana: 1) l’operazione giudiziaria “Mani pulite”, che stravolse completamente il quadro politico italiano portando alla sostanziale sparizione dei partiti che costituivano il cosiddetto Pentapartito; 2) gli omicidi dei giudici Falcone e Borsellino; 3) l’attacco alla lira ed alle altre valute europee da parte di alcuni insider guidati dallo speculatore George Soros, che portarono ad una forte svalutazione delle stesse ed alla conseguente distruzione del Sistema Monetario Europeo (SME). Nel gennaio del 1993 l’Executive Intelligence Review pubblicò un documento intitolato “La strategia anglo-americana dietro le privatizzazioni italiane: il saccheggio di un’economia nazionale”. In quello studio, inviato ad alcuni organi di stampa, alle forze politiche ed alle istituzioni, si delineava un quadro preoccupante di attacco all’economia italiana nel contesto della cosiddetta “globalizzazione dei mercati”, cioè la realizzazione di un unico sistema economico mondiale in cui non vi sarebbe stato più alcun controllo sui movimenti e sulla creazione di capitali. In quel documento si riferiva di un episodio passato inosservato, e che invece rivestiva una grandissima importanza. II 2 giugno 1992 si svolgeva una riunione semisegreta tra i principali esponenti della City, il mondo finanziario londinese, ed i manager pubblici italiani, rappresentanti del Governo di allora e personaggi che poi sarebbero diventati ministri o direttori generali nei Governi Amato, Dini, Ciampi, Prodi, D’Alema (ma anche Berlusconi, per quanto riguarda la centrale figura di Mario Draghi). Oggetto di discussione: le privatizzazioni. Questa riunione si tenne a bordo del panfilo della Corona inglese, il “Britannia”. Alla luce di quanto il complesso finanziario-mediatico-politico va oggi chiedendo – le liberalizzazioni-privatizzazioni appunto – possiamo individuare almeno due fasi di questo progetto che possiamo chiamare “Operazione Britannia”: la prima fase si occupò della svendita dell’Iri, di Telecom Italia, Eni, Enel, Comit, Imi, Ina, Credito italiano, Autostrade, l’industria siderurgica ed alimentare pubblica; la seconda fase – in corso di attuazione – punta invece al settore della previdenza, della sanità, dei trasporti (ferrovie, trasporto pubblico di linea, trasporto aereo e navale, taxi), a quello delle utilities (aziende municipalizzate nei settori acqua, elettricità, gas) e ad altre funzioni di rilievo pubblico. Se al livello dell’economia nazionale l’“Operazione Britannia” mette nelle mani di poche ricchissime famiglie ciò che prima era pubblico, con la dannosa conseguenza di diminuire le entrate dello Stato, i posti di lavoro e dunque il monte salari, creando così le condizioni per “riformare” in senso peggiorativo e non costituzionale il welfare (sanità, pensioni, giustizia, istruzione, ecc.), è sul superiore livello strategico internazionale che troviamo il grilletto che ha portato all’accelerazione di questa distruttrice fase della storia dello Stato sociale moderno. Attraverso la finanziarizzazione dell’economia mondiale, interi settori dell’economia reale vengono “cooptati” dal grande banco da gioco della finanza globale che per non crollare su sé stessa necessita continuamente di essere rifinanziata. Una grande “catena di Sant’Antonio” a livello globale, dove il gioco finisce quando l’ultimo della catena resta col cerino in mano, svelando che si è trattato di un grande bluff dove i valori finanziari espressi non esprimevano vera ricchezza reale.

mercoledì 7 luglio 2010

Due articoli tratti da Rinascita


Articolo di Vittoriano Peyrani



Osservando i fatti si devono prevedere peggioramenti continui ed inarrestabili della crisi economica al contrario delle previsioni ottimistiche dell’informazione ufficiale.
Si legge e si sente dire abbastanza spesso che siamo giunti al punto più grave della crisi e che da ora in poi la situazione economica comincerà a migliorare.
Si citano i cosiddetti “fondamentali” che sono i parametri finanziari, della produzione, del commercio e dei servizi; si parla dei titoli di Borsa e si cerca di infondere buone speranze consigliandone l’acquisto perché sarebbero estremamente sottovalutati e quindi dovrebbero presto risalire.
Questo è quanto affermano gli stessi economisti che hanno dimostrato di non saper prevedere, capire e comunicare l’arrivo e i motivi che hanno portato l’economia a questo punto.
Ma se si guarda attentamente quanto sta avvenendo si deve concludere che il peggio deve ancora arrivare e continuerà indefinitamente ad avanzare.
Vediamo di esaminare le ragioni di fondo che inducono a non prevedere cambiamenti positivi.
Non vi è dubbio che la crisi è stata scatenata o volutamente o incautamente dalla speculazione internazionale.
La seconda ipotesi sarebbe la più grave perché ci porterebbe a concludere che siamo nelle mani di persone poco capaci che gestirebbero dilettantisticamente un potere che incide sul benessere, sulla libertà e sulla vita di milioni di abitanti del pianeta. Si dovrebbero avere grossi timori se si trattasse di incoscienza, di incompetenza, di incapacità di coloro che dovrebbero decidere l’uso e il movimento di imponenti quantità di risorse con il dubbio che le potessero disperdere, disorganizzare, distruggere per errore.
Sarei più propenso a pensare che si tratti di un’operazione a vasto raggio dei più grandi poteri finanziari tendente all’appropriazione di capitali e di proprietà della finanza intermedia, delle popolazioni, degli Stati (privatizzazioni).
Il secondo motivo del pessimismo è il fatto che i comportamenti degli uomini politici non promettono niente di buono e che non è stato posto da questi alcun freno alla finanza bancaria internazionale. Questa, spostando a proprio piacimento capitali in grande massa, può continuare ad operare contro gli Stati europei, così come è successo per la Grecia e potrebbe succedere domani per l’Italia senza preavviso di sorta.
I bene informati dicono che le banche che contano stanno facendo incetta strisciante di buoni del tesoro di altri Stati europei. La stessa cosa era avvenuta per la Grecia come prodromo al quasi fallimento delle finanze di quello Stato. Il governo si è poi trovato, subito prima del rinnovo alla scadenza dei titoli, di fronte a una svendita al di sotto il valore nominale di buoni del tesoro nazionali concordata tra le banche. Questo ha allontanato i compratori. Si è così costretta la Grecia ad affidarsi all’usura delle banche internazionali prevalentemente anglo-americane. La Grecia, che non poteva pagare il proprio debito, non si potrà salvare aumentandolo e aumentando i conseguenti interessi: ha pertanto solo rimandato la resa dei conti, probabilmente aggravandola. Meglio avrebbe fatto a comportarsi come l’Argentina che ha concordato la restituzione del 20 per cento del debito, avendo la speculazione guadagnato abbastanza con tassi usurai fino al 17 per cento: prendere o lasciare.
Si fa notare che i guadagni di queste speculazioni non discendono dal mondo della Luna ma sottraggono ricchezze alle popolazioni.
I frequenti alti e bassi delle Borse non danneggiano sicuramente la casta borsistica apolide, ma solo gli ingenui investitori che si aspettano un rialzo secondo quanto affermato falsamente dalla informazione specializzata e non.
La tecnica è quella di vendere, senza parere, prima dei ribassi, mentre l’informazione sostiene i titoli con notizie roboanti o tranquillizzanti, e ricomprare a ribassi avvenuti, causati questi ultimi dalla diffusione di panico con speciosi allarmi sulla stampa. Si guadagnano così i miliardi di euro della differenza fra le vendite, a prezzi pieni, e i riacquisti a prezzi ribassati. Ecco dove sono andati a finire i miliardi cosiddetti “bruciati” in borsa! Il danno viene rigettato sul “parco buoi”, sui risparmiatori tenuti all’oscuro di queste manovre concordate, in sostanza su tutta la società che non ne può trarre evidentemente alcun beneficio.
Queste affermazioni faranno inorridire i membri della vecchia scuola economica classica che hanno studiato che le vendite creano ribassi mentre gli acquisti danno luogo a rialzi ma evidentemente ciò non avviene così semplicisticamente nella realtà. Gli speculatori di borsa non si lamentano, infatti, di perdere per questi continui movimenti delle quotazioni.
Connesso a quanto detto sopra è il fatto che chi possiede capitali non si mette certo ad organizzare impianti produttivi, superando rischi di bilancio, difficoltà tecniche ed amministrative, rapporti con la burocrazia (che si è preso un potere tale che spesso può essere superato solo con forme di corruzione), regolamenti cervellotici, oscuri ed al tempo stesso meticolosissimi. Di questi i funzionari e gli impiegati si arrogano il diritto di interpretazione caso per caso, stante la mancanza di ogni controllo.
Si preferisce investire in valute, oggi nel dollaro, ben sapendo che la linea di questa moneta è al rialzo e resterà tale per molto tempo ancora perché coloro che controllano i valori monetari a proprio piacimento vogliono ancora guadagnare con questo meccanismo monetario e sostenere comunque il sistema del dollaro a loro favorevole.
A chi decide non importa nulla della disoccupazione e del tenore di vita generale, anzi questi possono essere occasione di abbassamento dei propri costi e quindi di ulteriore lucro.
Secondo quanto si afferma da ogni parte i costi di produzione dell’industria cinese si aggirano sul quindici per cento dei nostri. In India, in Indonesia ed in altri paesi in via di sviluppo il costo del lavoro è molto più basso del nostro.
Con il movimento libero delle merci e dei capitali la conseguenza ovvia è la fuga delle industrie dall’Europa e la delocalizzazione in questi paesi dove si può guadagnare molto di più per gli infimi costi di una manodopera selvaggiamente sfruttata.
La deindustrializzazione dell’Italia e dell’Europa è l’inizio di una catena di fenomeni che porteranno miseria a tutti. Nessuno però se ne preoccupa più che a parole e non si prendono provvedimenti seri al proposito.
Da molto è già cominciata la chiusura delle aziende con le conseguenti mancanza di lavoro e disoccupazione: si verifica poi il calo dei consumi e dell’introito fiscale, le difficoltà di mantenere lo Stato Sociale e gli aiuti alle famiglie ed alle persone più bisognose. Inizialmente si allarga la forbice dei redditi sul modello americano, dove i più poveri stanno forse peggio della media dei cittadini del terzo mondo. Successivamente l’inasprimento fiscale, non potendo togliere a chi non ha più nulla, si rivolgerà a quel ceto medio-alto che oggi si ritiene al sicuro e se ne infischia degli altri.
Il pensiero unico politicamente corretto ha creato dei guasti tremendi: nessuno ha il coraggio nemmeno di ipotizzare la vera soluzione dei problemi ma si prospettano aggiustamenti provvisori solo per dare fumo negli occhi, assolutamente inadeguati alla gravità dei momenti che andremo a vivere. Si spera che col tempo la gente si abitui alle sempre maggiori ristrettezze senza ribellarsi e comunque si rimanda la resa dei conti guadagnando tempo fino a che sarà impossibile una reazione per l’indebolimento generale del sistema.
L’abbassamento degli stipendi, attraverso forme di dannosissimo precariato, con l’innalzamento a sessantacinque anni delle pensioni per le donne e la distruzione dello Stato Sociale, non possono in futuro farci superare lo spaventoso dislivello fra i nostri costi e quelli dei paesi che ci fanno concorrenza. Ottocentomilioni di contadini cinesi, che aspirano a diventare operai dell’industria, assicurano per decenni un bassissimo costo del lavoro nel loro paese.
Occorre anche dire che la situazione interna della Cina evidentemente ha particolarità uniche, è al di fuori del circuito produttivo e commerciale del resto del mondo e non è raffrontabile per nessun verso con quella delle altre nazioni. Quindi l’Europa, col libero mercato, è indotta dagli Stati Uniti a condurre una guerra perduta in partenza che avrà come risultato finale un suo forte ridimensionamento politico, economico e sociale.
Gli Stati Uniti stanno giocando il tutto per il tutto per la propria sopravvivenza e cominciano con il sacrificare il nostro continente mentre si aggrappano al fatto che la Cina accetta ancora propri buoni del tesoro certamente inesigibili. Fino a che durerà.
In questa drammatica situazione economica le burocrazie italiana ed europea prepotenti, ottuse ed autoritarie, si dilettano a far applicare le leggi nel modo più restrittivo possibile prendendosi il potere di imporre spese enormi alla comunità ed ai singoli.
Mentre altri paesi seri come la Svizzera, la Germania, la Francia hanno un corpus di circa diecimila leggi, in Italia una ditta specializzata, incaricata di fare un censimento delle normative, ha lasciato l’incarico quando ha raggiunto le centomila.
Tali leggi vengono emesse da un legislativo che ha “perso la testa” avviandosi sulla via della confusione, della demagogia, della infinita creazione di leggi, leggine, regolamenti più o meno inutili e spesso, in pratica, non applicati. Mi riferisco in particolare alla legislazione sull’edilizia, sul traffico, sulla sicurezza, ai regolamenti attinenti i condomini, all’adeguamento degli impianti elettrici che non hanno creato incidenti domestici, o in uffici, scuole o altri ambienti in numero tale da imporre spese di miliardi alla comunità e di migliaia di euro ai singoli. Tali costi non ce li possiamo permettere.
Un esempio è la normativa antincendio praticamente copiata dal modello anglo-americano che è previsto per case principalmente in legno o altri materiali non resistenti al fuoco e non per case in muratura come da noi.
Il pensiero politicamente corretto, imposto dalle centrali culturali americane (contigue a quelle finanziarie) non vuole nemmeno esaminare la possibilità di introduzione di dazi doganali, quali che siano, da studiare a protezione del nostro lavoro.
Quali sono, quindi, i motivi per cui questa crisi dovrebbe in futuro terminare nessuno lo spiega ed essa non terminerà se non si prenderanno provvedimenti giusti e radicali.
Si insiste infatti nell’espandere il cosiddetto libero mercato che per l’Europa è un suicidio a rate, con il corollario di privatizzazioni cioè svendite delle proprietà e delle attività statali. Invece si dovrebbe studiare la storia e vedere che la crisi del 1929 in Italia fu attenuata, al contrario, con le nazionalizzazioni delle banche e delle aziende in fallimento per salvare il lavoro ed il potenziale produttivo dalla rapacità e dalle manovre finanziarie a danno dei cittadini. In Germania fu seguita la stessa strada con strabilianti risultati economici come il riassorbimento di quattordici milioni di disoccupati, l’impianto di industrie fiorentissime di ogni genere e la costruzione di opere pubbliche grandiose.
Con le liberalizzazioni i privati imporranno costi aggiuntivi sui prodotti e sui servizi da loro gestiti, perché, a differenza dello Stato, vorranno aggiungere il loro guadagno e non mi sembra che brillino per moderazione nelle loro esigenze. Che fine ha fatto la diminuzione dei prezzi che la concorrenza fra privati avrebbe dovuto portare con le privatizzazioni? Quali prezzi sono diminuiti per i consumatori?
Le manutenzioni di impianti e macchinari, poi, non vengono effettuate per perseguire un maggiore guadagno. La situazione economica dunque si aggraverà in assenza di decisioni contro la crisi.
In conclusione chi parla di privatizzazioni, di libero mercato, di globalizzazione dovrebbe essere messo alla gogna come potatore di miseria ai nostri connazionali. Non voglio, infatti, credere che sia talmente stupido o ingenuo da non capire il danno che tali progetti comportano.
Per fermare la crisi non si può prescindere da alcune decisioni di base, fra le quali ne elencherò alcune: diversamente stiamo assistendo ad una rovina irreversibile dell’economia europea.
riappropriazione del potere di emettere moneta da parte degli Stati per eliminare la sovrastruttura parassitaria del debito pubblico verso chi crea denaro dal nulla, lo impresta ad interesse alle comunità e ne pretende la restituzione in beni reali.
Nazionalizzazione delle grandi banche. Un esempio storico dei possibili risultati di questo provvedimento si potrebbe avere studiando, come citato, l’economia dell’Italia e della Germania negli anni trenta.
Controllo dei movimenti dei capitali speculativi che impazzano da una parte all’altra del pianeta:
Austerità nei consumi contro ogni forma di sfrenato consumismo dannoso alla salute ed all’ambiente.
Riordinamento delle leggi, ridimensionamento della burocrazia riorganizzazione del lavoro a partire dalla scelta, ad ogni livello, delle persone sotto l’aspetto delle capacità individuali, del merito, delle qualità morali (Stato Etico)
Compartecipazione agli utili ed alla gestione delle imprese secondo quanto previsto dal modello della socializzazione della prima metà degli anni quaranta, opportunamente adeguato ai nostri tempi sotto l’aspetto dei cambiamenti della tecnica e socio-culturali avvenuti.
Diversamente la crisi non potrà terminare e continuerà ad aggravarsi abbassando all’infinito e sempre più drasticamente il tenore di vita delle popolazioni del vecchio continente mentre i prestiti bancari ad usura faranno perdere le proprietà e toglieranno la libertà alla nostra gente.



Articolo di Giuseppe parente



Nella millenaria storia dell’uomo vi sono stati sicuramente tanti regimi feroci e sanguinari, che hanno provocato dolori e lutti, ma i comportamenti dei loro uomini di potere non sono nulla rispetto alla ferocia e alla spietatezza della dittatura del “libero mercato”.
Esiste una differenza profonda tra i dittatori e la dittatura del libero mercato, costituita dal fatto che i primi, essendo uomini in carne e ossa, potevano essere sconfitti da altri uomini, mentre quel che si definisce “libero mercato” è un meccanismo anonimo, impersonale che chiede ogni giorno sacrifici alla quasi totalità della popolazione mondiale.
La classe politica e la società civile per rendere omaggio a questo mostro hanno perso tutto, dignità, libertà, valori e ogni esigenza che non sia materiale.
Un operaio dello stabilimento della Fiat di Pomigliano d’Arco, al quale era stato chiesto il perché avesse votato “sì” ad un accordo penalizzante per i lavoratori dello stabilimento ha risposto in maniera malinconica e diretta che “così è il mercato”.
Infatti, nel nome delle sue necessità inderogabili, si accettano lavori da schiavi e si ringrazia pure, in ossequio al vecchio proverbio che dice “o mangi questa minestra o ti butti dalla finestra”. Gli economisti sostenitori del libero mercato ci ricordano come il mercato sia sempre esistito dalla nascita dell’uomo ai giorni nostri, ma per amore della verità, ribattiamo ai fautori del libero mercato che per migliaia di anni l’unica forma possibile di scambio è stato il dono e il contro dono poi evolutosi nella figura del baratto puro, mentre in epoca moderna notiamo una differenza abissale tra il capitalismo commerciale e il capitalismo industriale.
Il capitalismo commerciale opera sull’esistente, su una domanda che già esiste, mentre il capitalismo industriale, per prima cosa dilata enormemente l’offerta dei beni esistenti, poi, grazie allo sviluppo della tecnologia, crea bisogni che nel passato nessuno aveva.
Il capitalismo industriale a differenza del capitalismo commerciale ha una straordinaria vitalità e un grande desiderio di espandersi, in senso geografico, conquistando nuovi orizzonti e in senso verticale, non limitandosi a trasferire beni, ma pensando addirittura a crearne di nuovi.
In questo contesto, in cui l’offerta crea la domanda, nasce il consumatore moderno, amante delle produzioni di massa di ciò che è banale, futile, inutile.
Da giovane mi sono divertito, giocando al pallone con gli amici, anche se campi improvvisati nelle piazze del centro storico di Napoli, ho giocato al biliardino e a tanti giochi improvvisati, quanto divertenti, li abbiamo inventati noi, non avevamo mica il telefonino cellulare Gsm, non avevamo mica il lettore mp4 o l’accesso ad internet, per poi utilizzare il noto social network di facebook. Eppure siamo sopravvissuti lo stesso, non potranno dire lo stesso i giovani che oggi sono compresi nella fascia d’età che va dai 14 ai 18 anni, schiavi della tv, di internet, di facebook.
La dittatura del libero mercato, ha anche altre e ben più gravi conseguenze, se pensiamo che il prezzo dei beni superflui diminuisce vertiginosamente mentre viceversa il prezzo dei beni di prima necessità aumenta in maniera costante e veloce. Grazie al libero mercato, oggi è possibile con meno di € 50, da qualsiasi aeroporto italiano, raggiungere la Spagna o l’Inghilterra, ma con la stessa banconota da € 50 non si riesce a riempire un carrello al supermercato con prodotti di prima necessità.
Viviamo in una società, dove il superfluo è ritenuto necessario e siamo diventati schiavi di uno strano meccanismo che ci ha trasformato da uomini, in consumatori delle inutilità che altrettanto rapidamente abbiamo prodotto.