venerdì 23 luglio 2010

Due articoli tratti da Rinascita.


Articolo di Alfredo Musto del 22 luglio 2010



L’onda lunga del 1992, l’onda lunga della morsa che stringe l’Italia, l’onda lunga della destabilizzazione e della penetrazione dei poteri che stanno sfibrando il tessuto politico, economico e sociale del Paese, mostra la sua forza d’urto riversandosi in ogni campo.
Naturalmente, infiltrandosi nei meccanismi dell’informazione e della propaganda, anzi dominandoli.
L’establishment della stampa e dell’editoria ricalca l’impronta di azione e controllo dei soggetti strategici che da decenni reggono le fila di un continuum oramai chiaramente ideologico e caricaturale.
Ne costituiscono una formidabile incarnazione Eugenio Scalfari e la sua emanazione Repubblica, espressioni di quel coacervo laico-azionista-massonico che ha caratterizzato fortemente i passaggi storici di questo Paese e a cui si ricollegano personaggi e vicende di primo piano, negli avamposti della politica, della finanza, della cultura così come dietro le quinte dei circoli e degli ambienti di comando e pressione.
I custodi delle verità precostituite e delle letture storiche preconfezionate amano spesso e volentieri menar vanto di lungimiranti intuizioni e di eccelse frequentazioni ideali o effettive. Costruiscono e aderiscono ad un immaginario di personaggi e ad uno scenario di eventi che poi calano sulla cosiddetta opinione pubblica, appositamente indotta o educata a credervi.
Scalfari, noto trombone di siffatto modus agendi, si è così prodigato per sé e per la Nazione nell’encomio di un uomo-simbolo che in tutti questi anni si è voluto piazzare sul piedistallo di moderno Padre della Patria, con tanto di “medaglia” al valore e al merito.
Scalfari loda Ciampi, dunque. L’occasione, l’ennesima, è l’uscita del libro-conversazione dell’ex presidente con Arrigo Levi. Dagli spunti che fornisce il fondatore de la Repubblica pare trattarsi di qualcosa decisamente differente dal pregnante “Fotti il potere” di un altro ex presidente quale Cossiga.
In questo suo “Ciampi, le tre vite del presidente. Autoritratto di un servitore dello Stato” [in data 17 giugno], Scalfari va in digressione sulla vita di quello che definisce “un personaggio unico nella storia dell’Italia repubblicana”.
(http://www.repubblica.it/politica/2010/06/17/news/ciampi_le_tre_vite_del_presidente_autoritratto_di_un_servitore_dello_stato-4910575/index.html?ref=search).
Ecco, distanti dalla ferma tenuta liberal-democratica dell’egregio Direttore, molto più volgarmente il Gran Maestro livornese nei nostri ricordi è un dissolutore dello Stato.
La sua ascesa alle postazioni di comando è stata figlia dei tempi.
Ciampi rappresenta quella fase di passaggio dalla primazia della politica alla prassi tecnocratica ed economicistica. Costituisce, di fatto, uno di quei personaggi dotati di un apparentemente neutrale sapere tecnico che si è voluto presentare come imprescindibile per muoversi all’interno delle nuove dinamiche globali. Così è accaduto che un Governatore della Banca d’Italia e punto di riferimento di una certa corrente finanziaria con determinati assetti e mire strategiche, sia stato indicato tra i prescelti a condurre il Paese in una fase di instabilità politico-economica.
Tuttavia, se è pur vero che egli viene fuori da e in una situazione d’urgenza, resta il fatto che questa è stata determinata da un insieme di cause scatenati che non piovono dal cielo, ma sono la risultante di quello che può essere definito – a maggior ragione oggi a distanza di anni- un processo di ridisegnamento geopolitico e geoeconomico, all’interno del quale si inserisce a pieno titolo quell’ ”oscuro” fenomeno null’affatto solo giudiziario che fu Mani Pulite.
Di Ciampi, a differenza delle complici reticenze di Eugenio Scalfari, preferiamo ricordare le sue per nulla sagge iniziative in particolare da Governatore nel ’92 e poi da Presidente del Consiglio nel ’93, a parte quelle da Ministro indiscusso del Tesoro dal ’96 al ’99.
La sua esaltazione storiografico-giornalistica è speculare alla mitizzazione fatta di Maastricht, dei suoi parametri eretti a dogmi di fede inattaccabile, e della moneta unica europea.
Negli anni Novanta l’europeismo è tutta un’alchimia tecno-finanziaria. Ciampi è come un profeta.
Alla guida di Bankitalia, in combutta con il fanta-socialista Amato e con le centrali della finanza e dei predoni nazionali ed internazionali, operò la scelta della svalutazione della lira.
Nei primi mesi del 1992, le parità di cambio all’interno dello SME erano pressoché consolidate, senza che ci fossero particolari oscillazioni oltre i limiti prefissati. Da parte sua, l’Italia presentava una bilancia commerciale nella sostanza equilibrata e un monte di riserve valutarie intorno ai 34 miliardi di ecu, più o meno 52mila miliardi di lire.
Nello scombussolamento generale in atto e nel convergere di diversi fattori endogeni ed esogeni, calò una significativa manovra finanziaria a far scricchiolare gli assestamenti degli anni precedenti.
Nel mirino c’era, tra le altre monete, la lira. In cabina di regia operavano Soros&soci. I loro bracci armati come l’agenzia di rating Moody’s lanciavano campagne a discredito del Paese.
Al trio Ciampi-Amato-Barucci non poteva sfuggire che un attacco di quel tipo non poteva essere contrastato operando sul mercato dei cambi con una solitaria iniziativa nazionale, anche in virtù delle condizioni di libera convertibilità. Sarebbe stato necessario almeno un sostegno tedesco, il che era evidente non fosse possibile. La Bundesbank non aveva intenzione di tener fede ormai agli accordi Sme, la stessa Germania avrebbe tratto vantaggio dalla svalutazione della lira.
Così, con larvato autolesionismo o meglio con subdola complicità, si provvedeva ad attuarla con un iniziale 7% poi in crescendo. La lira scivolava via dallo Sme.
A fronte di un’estemporanea boccata d’ossigeno sarebbero emersi almeno tre fattori, tutti indicativi di una manovra di destabilizzazione: i profitti dell’orda di speculatori, il dissanguamento delle riserve finanziarie e il deprezzamento della vasta gamma di aziende pubbliche per le quali si preparava il de profundis.
La consolidata struttura di economia mista italiana entrava praticamente nel ciclone liberista.
Il 2 giugno, sul Britannia, si raggiungeva un’altra tappa del regime change all’italiana.
E non casualmente, ma in perfetta sinergia, all’attacco economico-finanziario si affiancava in quel periodo quello politico, all’uopo per via giudiziaria, con l’operazione Mani Pulite (nome in codice cleanhands).
Sorvoliamo sulle altrettanto non casuali sanguinarie sortite della Mafia, a proposito delle quali lo stesso tecno-Carlo Azeglio di recente ed il clan di Repubblica da sempre, continuano a fare opera di depistaggio.
Evidentemente il nostro Ciampi, in scioltezza spalleggiato da Washington, Londra e Bruxelles, assurgeva a fidato alfiere del processo di sgretolamento predisposto per l’Italia.
In uno scenario politico sempre più cumulo di macerie, nasceva il primo governo tecnico della storia della Repubblica, con a capo il Gran Maestro (aprile ’93- maggio ’94).
Sintomo palese di una frattura storica. Prima di lui, fu Badoglio. In seguito ad un colpo di Stato. Allora il ’43, ieri il ’92. E ho detto tutto. Il governo Ciampi non badò, come naturale che fosse, alla tenuta del sistema. Nacque per gestire un itinerario all’interno di una transizione eterodiretta. In quei giorni si consumò la liquidazione dei vecchi partiti baluardo di un dato assetto, di una data politica; si redisse una riforma elettorale di tipo maggioritario e si avviò tutto quell’infausto processo di dismissioni-privatizzazioni che segnerà il ciclo degli anni Novanta, di chiara matrice centro-sinistra. Ci preparavamo a “fare all’americana”. Le sue parole al convegno I Nobel a Milano, riecheggiano la solita solfa del linguaggio moderno-liberista: “… i mali d’Italia si identificano in tre rigidità: quella del sistema economico finanziario, basato su grandi imprese in gran parte di proprietà pubblica incapaci di sviluppare un vero mercato del capitale di rischio; la rigidità del mercato del lavoro e del sistema fiscale; la rigidità della pubblica amministrazione.
Assieme, queste tre rigidità - afferma Ciampi - hanno disegnato un volto del sistema economico italiano in cui la propensione naturale per il mercato è stata svilita, in cui lo Stato è stato troppo presente dove non avrebbe dovuto essere - favorendo in tal modo l’inquinamento da corruzione - e non abbastanza presente dove avrebbe dovuto: nell’azione in difesa della concorrenza, nello sradicamento dell’economia criminale, nella promozione dei mercati finanziari al servizio di tutti”.[da “I giorni dell’IRI” di M. Pini] E venne l’ora delle intuizioni. Come “la politica di concertazione delle parti sociali” - per sua stessa definizione - che volevasi rivelare il mezzo per far fronte alle nuove dinamiche del mercato del lavoro. I sindacati, già sclerotizzati, stavano al gioco. Come l’abolizione dei limiti vigenti dalla legge bancaria del 1936 in merito alla separatezza tra banche e industria.
Come la nomina di un comitato di consulenza per le privatizzazioni con a capo Mr. Mario Goldman Sachs Draghi, di pari passo col ritorno all’Iri di quell’altro fuoriclasse della distruzione ovvero Romano Prodi.
Del duo sfasciacarrozze Carlo Azeglio – Romano ricordiamo la privatizzazione della Banca Commerciale Italiana, del Credito Italiano, di buona parte del settore agro-alimentare dell’Iri, della Nuova Pignone Eni. Con la logica della “ristrutturazione”, nel ’93 fu messa mano all’Ilva. Praticamente l’inizio della fine della grande siderurgia italiana.
Praticamente con Ciampi si avvia – per continuare poi con lui stesso al Tesoro- in maniera operativa la disintegrazione del controllo pubblico di banche ed industrie, l’annullamento di una visione strategica nazionale attraverso l’abbattimento dei settori chiave, l’appiattimento alle logiche eurocratiche con le relative disfunzioni nel mondo del lavoro ed in quello produttivo.
Un’azione scientemente condotta. Persino eversiva.
Scalfari, nella sua stucchevole sottolineatura dell’alto profilo istituzionale, non manca di far notare l’altro lato dell’atlantismo dell’ex presidente, accennando alla “riunione del Consiglio supremo di Difesa da lui convocato all’inizio della guerra americana in Iraq, che impose al governo la formula della “partecipazione pacifica” del contingente italiano all’iniziativa di Bush, visto che la nostra Costituzione impedisce guerre offensive”. Chiaro, no?
Ci vuole la tenacia, la complicità e la visione azionista di Scalfari per definire Carlo Azeglio Ciampi “un servitore dello Stato”. All’uno e all’altro, del resto, non manca una pedante retorica intrisa di formalismo liberal-democratico, la stessa in uso per giustificare e incensare le manovre di potere e gli sconquassi che segnano Italia dal ’92 ad oggi.
La stessa, del resto, in uso quando si ergono a legittimi paladini del bon ton costituzionale e della retta via da perseguire in ossequio ai dettami tecnocratici che provengono dalle “alte cariche” nazionali o estere.
L’accolita di giornalisti e intellettuali alla Scalfari dipinge sempre gli interventi e le mosse di grigi funzionari e integerrimi liberal-democratici come fossero le sublimi e necessarie posizioni che ad un Paese moderno e riformista spetterebbe assumere. La solita solfa.



Articolo di www.movisol.org del 22 luglio 2010



L’idea per cui le liberalizzazioni e le privatizzazioni portino benefici all’economia, è ormai, dai fatti, totalmente confutata.
1 – le liberalizzazioni portano ad un aumento dei prezzi;
2 – le liberalizzazioni portano alla distruzione di posti di lavoro ed all’abbassamento degli stipendi dei lavoratori e dei fatturati delle piccole imprese;
3 – la liberalizzazione-privatizzazione dell’impresa pubblica nel periodo 1992-2000 non è stata conseguenza dell’inefficienza economica;
4 – i processi di liberalizzazione-privatizzazione non hanno minimamente migliorato la capacità produttiva italiana;
5 – le liberalizzazioni favoriscono i concentramenti di capitale in poche ricchissime mani;
6 – il rendimento finanziario delle aziende privatizzate è stato peggiore rispetto alla generalità del mercato finanziario italiano.
Il processo di liberalizzazioni-privatizzazioni prese avvio in Italia nel 1992. La motivazione ufficiale che portò a questa fase di stravolgimento degli assetti proprietari dell’impresa pubblica nazionale fu quella dell’elevato debito pubblico che andava ridotto. A ciò si aggiungeva e si legava, la questione di una maggiore “libertà” del mercato, con cui la preminente presenza pubblica in settori strategici e non, confliggeva. Questa stagione prese avvio in concomitanza ad alcuni fatti che resero caldissima la situazione politica e sociale italiana: 1) l’operazione giudiziaria “Mani pulite”, che stravolse completamente il quadro politico italiano portando alla sostanziale sparizione dei partiti che costituivano il cosiddetto Pentapartito; 2) gli omicidi dei giudici Falcone e Borsellino; 3) l’attacco alla lira ed alle altre valute europee da parte di alcuni insider guidati dallo speculatore George Soros, che portarono ad una forte svalutazione delle stesse ed alla conseguente distruzione del Sistema Monetario Europeo (SME). Nel gennaio del 1993 l’Executive Intelligence Review pubblicò un documento intitolato “La strategia anglo-americana dietro le privatizzazioni italiane: il saccheggio di un’economia nazionale”. In quello studio, inviato ad alcuni organi di stampa, alle forze politiche ed alle istituzioni, si delineava un quadro preoccupante di attacco all’economia italiana nel contesto della cosiddetta “globalizzazione dei mercati”, cioè la realizzazione di un unico sistema economico mondiale in cui non vi sarebbe stato più alcun controllo sui movimenti e sulla creazione di capitali. In quel documento si riferiva di un episodio passato inosservato, e che invece rivestiva una grandissima importanza. II 2 giugno 1992 si svolgeva una riunione semisegreta tra i principali esponenti della City, il mondo finanziario londinese, ed i manager pubblici italiani, rappresentanti del Governo di allora e personaggi che poi sarebbero diventati ministri o direttori generali nei Governi Amato, Dini, Ciampi, Prodi, D’Alema (ma anche Berlusconi, per quanto riguarda la centrale figura di Mario Draghi). Oggetto di discussione: le privatizzazioni. Questa riunione si tenne a bordo del panfilo della Corona inglese, il “Britannia”. Alla luce di quanto il complesso finanziario-mediatico-politico va oggi chiedendo – le liberalizzazioni-privatizzazioni appunto – possiamo individuare almeno due fasi di questo progetto che possiamo chiamare “Operazione Britannia”: la prima fase si occupò della svendita dell’Iri, di Telecom Italia, Eni, Enel, Comit, Imi, Ina, Credito italiano, Autostrade, l’industria siderurgica ed alimentare pubblica; la seconda fase – in corso di attuazione – punta invece al settore della previdenza, della sanità, dei trasporti (ferrovie, trasporto pubblico di linea, trasporto aereo e navale, taxi), a quello delle utilities (aziende municipalizzate nei settori acqua, elettricità, gas) e ad altre funzioni di rilievo pubblico. Se al livello dell’economia nazionale l’“Operazione Britannia” mette nelle mani di poche ricchissime famiglie ciò che prima era pubblico, con la dannosa conseguenza di diminuire le entrate dello Stato, i posti di lavoro e dunque il monte salari, creando così le condizioni per “riformare” in senso peggiorativo e non costituzionale il welfare (sanità, pensioni, giustizia, istruzione, ecc.), è sul superiore livello strategico internazionale che troviamo il grilletto che ha portato all’accelerazione di questa distruttrice fase della storia dello Stato sociale moderno. Attraverso la finanziarizzazione dell’economia mondiale, interi settori dell’economia reale vengono “cooptati” dal grande banco da gioco della finanza globale che per non crollare su sé stessa necessita continuamente di essere rifinanziata. Una grande “catena di Sant’Antonio” a livello globale, dove il gioco finisce quando l’ultimo della catena resta col cerino in mano, svelando che si è trattato di un grande bluff dove i valori finanziari espressi non esprimevano vera ricchezza reale.

Nessun commento: