Il seguente articolo, è a firma di Fabrizio Fiorini di Sinistra Nazionale, ed è tratto dal quotidiano Rinascita.
Uno dei principali fondamenti dottrinari del socialismo ante-litteram, quello – per intenderci – che ha permeato le strutture politico istituzionali delle più luminose civiltà del passato, dall’ordine greco alle conquiste sociali di Roma, sta tutto in una frase: “ubi commoda ibi incommoda”. In tale brocardo (alla lettera: “ove vi sono cose vantaggiose, lì vi sono cose svantaggiose”) si è inverato il concetto di responsabilità, concetto che il bagliore della latinità ha proiettato sui molteplici aspetti della vita civile. Alla base del concetto di autorità morale o politica, ad esempio; oppure, sul terreno dei rapporti individuali e tra individuo e società, il lascito di Roma è divenuto imprescindibile fondamento della giurisprudenza (oggi si usa il termine più prosaico di “responsabilità civile”): si consideri il caso del diritto di famiglia, ove all’autorità genitoriale, alla patria potestà, deve corrispondere la responsabilità di mantenimento e di educazione della prole. Nel diritto del lavoro, così come è stato forgiato dalla legislazione italiana degli anni Venti del secolo scorso con l’istituzione della contrattazione collettiva e l’assicurazione obbligatoria dei lavoratori, l’ “ubi commoda ibi incommoda” è stato la scaturigine giuridica del concetto di “lavoro dipendente”.
Il rapporto di lavoro dipendente, pubblico o privato che sia, si basa sulla cessione da parte del lavoratore non già (o non solo) delle proprie competenze, della propria manodopera, del proprio intelletto, dei propri brevetti, della propria perizia, della propria diligenza, della propria prestazione in genere; si basa invece sulla “vendita” (come è d’uso dire oggi) del proprio tempo. Esempio: se l’operaio arriva in fabbrica e il padrone gli dice “non ho niente da farti fare”, e questi trascorre le sue otto ore seduto su una sedia, alla fine della giornata il datore di lavoro non potrà dirgli “non hai fatto niente e quindi non ti pago”. Il dipendente ha messo comunque il proprio tempo a disposizione del datore, così come previsto dal contratto, ed avrà quindi il sacrosanto diritto alla sua retribuzione che, non a caso, è computata sulla base di unità temporali, orarie o giornaliere che siano. E non solo la retribuzione gli spetterà: avrà diritto a un’assicurazione contro gl’infortuni, a un’indennità in caso di malattia, al diritto di usufruire di ferie e permessi parimenti retribuiti, alle mensilità supplementari previste dal contratto, alla maturazione del trattamento di fine rapporto, al fatto che il datore di lavoro versi un premio proporzionale alla retribuzione alla Previdenza Sociale per garantire al lavoratore stesso la “pensione” quando questi si ritirerà dalla vita lavorativa. Un “incommoda”, quindi, che grava sul datore di lavoro dal punto di vista economico e degli adempimenti che per il dipendente debbono essere espletati. Di contro, costui riceverà naturalmente un “commoda”: il potere disciplinare, ad esempio, in virtù del quale potrà dare indicazioni e ordini al lavoratore il quale (nei limiti del buon senso e della legalità) a questi non potrà sottrarsi, o la facoltà di comminare sanzioni, o ancora – nell’ambito dei sistemi retti a economia capitalista – l’appropriazione degli “utili” derivanti dal lavoro altrui (a lavare le coscienze che potrebbero sporcarsi a forza di mettere in atto questa appropriazione indebita, è stato coniato oggigiorno il concetto di “rischio d’impresa”, e cioè: il datore di lavoro ha diritto a guadagnare il decuplo lavorando un decimo in quanto “rischia” in prima persona i suoi averi. Peccato che questo rischio d’impresa sia a senso unico: se le cose vanno bene allora prendo tutto, se le cose vanno male chiedo aiuto allo Stato che dovrà allentare i cordoni della borsa per salvare l’azienda – senza neanche nazionalizzarla, come avverrebbe in ogni Paese civile - e quindi l’occupazione…). Pur con tutti i suoi limiti – dettati dall’inserimento di detto schema nel contesto socioeconomico dell’economia di mercato – il lavoro dipendente così come eravamo abituati a concepirlo fino a qualche anno fa offriva comunque una enorme risorsa di ricchezza e di civiltà alla nazione: al lavoratore erano garantite una retribuzione stabile e duratura, delle garanzie sociali che lo tutelavano in caso di eventi inabilitanti al lavoro, il diritto a una retribuzione sociale alla fine della vita lavorativa, il diritto al riposo e allo svago, la possibilità di accesso ai beni di sussistenza e – di conseguenza – la stabilità economica finalizzata alla crescita della nazione dal punto di vista produttivo, demografico e sociale. Quanto sopra è ormai un retaggio di un tempo che fu. La condizione del lavoratore in Italia, negli ultimi quindici anni, è precipitata fino a raggiungere i livelli di allarme sociale la cui effettività inizia ad essere riconosciuta anche dai settori più refrattari dell’autoreferenziale sistema politico ed economico. I numeri del cataclisma in atto (e siamo ancora in una fase intermedia) ci vengono infatti forniti non da qualche fogliaccio bolscevico o dai residuati bellici dell’operaismo: è sufficiente sfogliare le pagine del “Rapporto annuale 2010” pubblicato nei giorni scorsi dall’Istat. Manca solo il “firmato Diaz” in calce, ma per il resto è un bollettino di guerra. La disoccupazione è in aumento in ogni area del Paese, anche in quelle che in passato registravano percentuali occupazionali impensabili nelle regioni meridionali, anche nei comparti produttivi che un tempo erano stati il fiore all’occhiello del sistema economico nazionale; i soggetti più colpiti sono naturalmente i giovani, le donne, le madri, o ancora quanti hanno perduto il proprio posto di lavoro in età avanzata. Ma anche gli altri non se la passano meglio: le retribuzioni non sono sufficienti, si vive sotto il perenne ricatto della precarietà, la durata dei “tempi determinati” è diventata più lunga di quella della vita degli spermatozoi che permetterebbero di “mettere su” una propria famiglia.
Non solo: lo sfacelo descritto dal nostro Istituto centrale di statistica è comunque una delineazione incompleta e per certi versi capziosa. Altre calamità sociali emergono dalle righe e dalla sterile elencazione di cifre del Rapporto. Trattando dei lavoratori “atipici”, ad esempio, fa riferimento prevalentemente ai “tempi determinati” ai lavoratori a tempo parziale, ai collaboratori a progetto; bisognerebbe approfondire invece anche le vicende di quel torbido sottobosco di sub-atipici che si avvicina più al mondo del lavoro nero che non a quello della precarietà e che si nasconde dietro i praticantati, i tirocini formativi, il lavoro a chiamata, i rimborsi spese. Non tengono conto, gli statistici nazionali, che la gran parte di costoro (co.co.pro., tirocinanti, per non parlare delle schiere di “partite Iva”) altro non sono che dipendenti camuffati, che come ogni dipendente devono sottostare al potere direzionale e disciplinare del datore di lavoro il quale però conserva solo il “commoda”, perché l’ “incommoda” (contributi, Tfr, ferie, malattia) si perde nelle larghe maglie di istituzioni che offrono loro ogni genere di scappatoia per continuare ad arricchirsi sulle spalle del popolo, che tanto per uno che si ribella se ne trova sempre un altro più disperato o più ricattabile. Poi si sorprendono dei “rigurgiti estremisti”, si scandalizzano se c’è chi va in piazza a dire “addavenì Ceausescu”.
Il cancro si chiama “deregolamentazione”, e si manifesta attraverso leggi sul lavoro degne di un girone dantesco: con gli apprendistati (a contributi zero o poco più e a bassa retribuzione) che durano cinque anni per formare un centralinista o un badilante, col lavoro a chiamata che di fatto legalizza il lavoro nero, coi voucher o buoni lavoro che ripristinano il cottimo e avrebbero fatto gola ai caporali dei latifondi. La metastasi è invece la volontà politica che tutto resti invariato, anzi: che tutto peggiori; è la volontà politica di dissolvere il tessuto sociale e lavorativo nazionale in virtù della necessità di preservare il privilegio di pochi parassiti, è la messa in atto di un vergognoso mercato degli schiavi attraverso l’importazione di manodopera a basso costo/nessun diritto dall’estero, come di recente fatto con il “decreto flussi” con cui si è autorizzato l’ingresso sul territorio nazionale di decine di migliaia di stranieri attraverso l’istituzione di altrettante decine di migliaia di contratti di lavoro fittizi sottoscritti da prestanome. Lavoratori che una volta entrati in Italia andranno a fare da carne da cannone nella guerra tra poveri in cui i nostri connazionali già si scannano a vicenda per accedere a un posto di lavoro sottopagato, e che andranno a gravare enormemente sulle già esangui casse della nostra previdenza sociale.
Non può essere solo inettitudine: è una precisa volontà politica di distruzione. Non si sono accontentati di aver distrutto i più alti aneliti del sentire politico dei popoli: la giustizia sociale, il socialismo. Non si sono accontentati di aver disgregato il tessuto connettivo primario in cui questi valori politici di sono realizzati: le nazioni. Vogliono colpire a morte l’anima stessa della vita degli uomini: lo Stato.
Orfani dello Stato, ci vogliono. Senza più l’Ente supremo cui fare riferimento, cancellato finanche in tutti i suoi aspetti materiali che lo rendevano visibile e autorevole agli occhi dei suoi cittadini: senza più un collocamento centralizzato capace di coniugare le esigenze di lavoro e gli obiettivi di crescita economica, ci vogliono vedere elemosinare in fila davanti un’agenzia interinale; senza la difesa che lo Stato riservava ai più deboli contro gli squali della speculazione e dell’accumulazione di ricchezze, difesa garantita, ad esempio, degli Ispettorati del lavoro; senza più l’assistenza sociale che era erogata da Istituti quali l’Inps e l’Inail, di cui hanno dismesso addirittura il meraviglioso e spartano patrimonio immobiliare; senza una concezione di “pubblico”, sfumata in una generica astrazione di “servizi” delegati ai privati; senza quel senso di appartenenza a una comunità di destino che solo lo Stato può ancora tenere insieme.
Lo Stato è moribondo: i sacerdoti delle banche e del denaro l’hanno già trascinato sul loro sudicio altare e, alzate le lame, attendono solo di poter sferrare il colpo di grazia.
La “sede statale” è vacante. Ma la sua fiamma non è spenta; ironia della sorte, tocca a noi, agli eretici, custodirla. Con la consapevolezza che non si può essere custodi per sempre: il futuro abbisogna di tedofori.
Il rapporto di lavoro dipendente, pubblico o privato che sia, si basa sulla cessione da parte del lavoratore non già (o non solo) delle proprie competenze, della propria manodopera, del proprio intelletto, dei propri brevetti, della propria perizia, della propria diligenza, della propria prestazione in genere; si basa invece sulla “vendita” (come è d’uso dire oggi) del proprio tempo. Esempio: se l’operaio arriva in fabbrica e il padrone gli dice “non ho niente da farti fare”, e questi trascorre le sue otto ore seduto su una sedia, alla fine della giornata il datore di lavoro non potrà dirgli “non hai fatto niente e quindi non ti pago”. Il dipendente ha messo comunque il proprio tempo a disposizione del datore, così come previsto dal contratto, ed avrà quindi il sacrosanto diritto alla sua retribuzione che, non a caso, è computata sulla base di unità temporali, orarie o giornaliere che siano. E non solo la retribuzione gli spetterà: avrà diritto a un’assicurazione contro gl’infortuni, a un’indennità in caso di malattia, al diritto di usufruire di ferie e permessi parimenti retribuiti, alle mensilità supplementari previste dal contratto, alla maturazione del trattamento di fine rapporto, al fatto che il datore di lavoro versi un premio proporzionale alla retribuzione alla Previdenza Sociale per garantire al lavoratore stesso la “pensione” quando questi si ritirerà dalla vita lavorativa. Un “incommoda”, quindi, che grava sul datore di lavoro dal punto di vista economico e degli adempimenti che per il dipendente debbono essere espletati. Di contro, costui riceverà naturalmente un “commoda”: il potere disciplinare, ad esempio, in virtù del quale potrà dare indicazioni e ordini al lavoratore il quale (nei limiti del buon senso e della legalità) a questi non potrà sottrarsi, o la facoltà di comminare sanzioni, o ancora – nell’ambito dei sistemi retti a economia capitalista – l’appropriazione degli “utili” derivanti dal lavoro altrui (a lavare le coscienze che potrebbero sporcarsi a forza di mettere in atto questa appropriazione indebita, è stato coniato oggigiorno il concetto di “rischio d’impresa”, e cioè: il datore di lavoro ha diritto a guadagnare il decuplo lavorando un decimo in quanto “rischia” in prima persona i suoi averi. Peccato che questo rischio d’impresa sia a senso unico: se le cose vanno bene allora prendo tutto, se le cose vanno male chiedo aiuto allo Stato che dovrà allentare i cordoni della borsa per salvare l’azienda – senza neanche nazionalizzarla, come avverrebbe in ogni Paese civile - e quindi l’occupazione…). Pur con tutti i suoi limiti – dettati dall’inserimento di detto schema nel contesto socioeconomico dell’economia di mercato – il lavoro dipendente così come eravamo abituati a concepirlo fino a qualche anno fa offriva comunque una enorme risorsa di ricchezza e di civiltà alla nazione: al lavoratore erano garantite una retribuzione stabile e duratura, delle garanzie sociali che lo tutelavano in caso di eventi inabilitanti al lavoro, il diritto a una retribuzione sociale alla fine della vita lavorativa, il diritto al riposo e allo svago, la possibilità di accesso ai beni di sussistenza e – di conseguenza – la stabilità economica finalizzata alla crescita della nazione dal punto di vista produttivo, demografico e sociale. Quanto sopra è ormai un retaggio di un tempo che fu. La condizione del lavoratore in Italia, negli ultimi quindici anni, è precipitata fino a raggiungere i livelli di allarme sociale la cui effettività inizia ad essere riconosciuta anche dai settori più refrattari dell’autoreferenziale sistema politico ed economico. I numeri del cataclisma in atto (e siamo ancora in una fase intermedia) ci vengono infatti forniti non da qualche fogliaccio bolscevico o dai residuati bellici dell’operaismo: è sufficiente sfogliare le pagine del “Rapporto annuale 2010” pubblicato nei giorni scorsi dall’Istat. Manca solo il “firmato Diaz” in calce, ma per il resto è un bollettino di guerra. La disoccupazione è in aumento in ogni area del Paese, anche in quelle che in passato registravano percentuali occupazionali impensabili nelle regioni meridionali, anche nei comparti produttivi che un tempo erano stati il fiore all’occhiello del sistema economico nazionale; i soggetti più colpiti sono naturalmente i giovani, le donne, le madri, o ancora quanti hanno perduto il proprio posto di lavoro in età avanzata. Ma anche gli altri non se la passano meglio: le retribuzioni non sono sufficienti, si vive sotto il perenne ricatto della precarietà, la durata dei “tempi determinati” è diventata più lunga di quella della vita degli spermatozoi che permetterebbero di “mettere su” una propria famiglia.
Non solo: lo sfacelo descritto dal nostro Istituto centrale di statistica è comunque una delineazione incompleta e per certi versi capziosa. Altre calamità sociali emergono dalle righe e dalla sterile elencazione di cifre del Rapporto. Trattando dei lavoratori “atipici”, ad esempio, fa riferimento prevalentemente ai “tempi determinati” ai lavoratori a tempo parziale, ai collaboratori a progetto; bisognerebbe approfondire invece anche le vicende di quel torbido sottobosco di sub-atipici che si avvicina più al mondo del lavoro nero che non a quello della precarietà e che si nasconde dietro i praticantati, i tirocini formativi, il lavoro a chiamata, i rimborsi spese. Non tengono conto, gli statistici nazionali, che la gran parte di costoro (co.co.pro., tirocinanti, per non parlare delle schiere di “partite Iva”) altro non sono che dipendenti camuffati, che come ogni dipendente devono sottostare al potere direzionale e disciplinare del datore di lavoro il quale però conserva solo il “commoda”, perché l’ “incommoda” (contributi, Tfr, ferie, malattia) si perde nelle larghe maglie di istituzioni che offrono loro ogni genere di scappatoia per continuare ad arricchirsi sulle spalle del popolo, che tanto per uno che si ribella se ne trova sempre un altro più disperato o più ricattabile. Poi si sorprendono dei “rigurgiti estremisti”, si scandalizzano se c’è chi va in piazza a dire “addavenì Ceausescu”.
Il cancro si chiama “deregolamentazione”, e si manifesta attraverso leggi sul lavoro degne di un girone dantesco: con gli apprendistati (a contributi zero o poco più e a bassa retribuzione) che durano cinque anni per formare un centralinista o un badilante, col lavoro a chiamata che di fatto legalizza il lavoro nero, coi voucher o buoni lavoro che ripristinano il cottimo e avrebbero fatto gola ai caporali dei latifondi. La metastasi è invece la volontà politica che tutto resti invariato, anzi: che tutto peggiori; è la volontà politica di dissolvere il tessuto sociale e lavorativo nazionale in virtù della necessità di preservare il privilegio di pochi parassiti, è la messa in atto di un vergognoso mercato degli schiavi attraverso l’importazione di manodopera a basso costo/nessun diritto dall’estero, come di recente fatto con il “decreto flussi” con cui si è autorizzato l’ingresso sul territorio nazionale di decine di migliaia di stranieri attraverso l’istituzione di altrettante decine di migliaia di contratti di lavoro fittizi sottoscritti da prestanome. Lavoratori che una volta entrati in Italia andranno a fare da carne da cannone nella guerra tra poveri in cui i nostri connazionali già si scannano a vicenda per accedere a un posto di lavoro sottopagato, e che andranno a gravare enormemente sulle già esangui casse della nostra previdenza sociale.
Non può essere solo inettitudine: è una precisa volontà politica di distruzione. Non si sono accontentati di aver distrutto i più alti aneliti del sentire politico dei popoli: la giustizia sociale, il socialismo. Non si sono accontentati di aver disgregato il tessuto connettivo primario in cui questi valori politici di sono realizzati: le nazioni. Vogliono colpire a morte l’anima stessa della vita degli uomini: lo Stato.
Orfani dello Stato, ci vogliono. Senza più l’Ente supremo cui fare riferimento, cancellato finanche in tutti i suoi aspetti materiali che lo rendevano visibile e autorevole agli occhi dei suoi cittadini: senza più un collocamento centralizzato capace di coniugare le esigenze di lavoro e gli obiettivi di crescita economica, ci vogliono vedere elemosinare in fila davanti un’agenzia interinale; senza la difesa che lo Stato riservava ai più deboli contro gli squali della speculazione e dell’accumulazione di ricchezze, difesa garantita, ad esempio, degli Ispettorati del lavoro; senza più l’assistenza sociale che era erogata da Istituti quali l’Inps e l’Inail, di cui hanno dismesso addirittura il meraviglioso e spartano patrimonio immobiliare; senza una concezione di “pubblico”, sfumata in una generica astrazione di “servizi” delegati ai privati; senza quel senso di appartenenza a una comunità di destino che solo lo Stato può ancora tenere insieme.
Lo Stato è moribondo: i sacerdoti delle banche e del denaro l’hanno già trascinato sul loro sudicio altare e, alzate le lame, attendono solo di poter sferrare il colpo di grazia.
La “sede statale” è vacante. Ma la sua fiamma non è spenta; ironia della sorte, tocca a noi, agli eretici, custodirla. Con la consapevolezza che non si può essere custodi per sempre: il futuro abbisogna di tedofori.
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